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Addio a Paul Auster, autore dell’angoscia colma di energia

Tutti lo ricordano per la trilogia di New York, ma io l'ho amato per 'La musica del caso' perché i libri si insinuano nelle pieghe della vita

  • New York.

Addio a Paul Auster, autore dell’angoscia colma di energia. Tutti lo ricordano per la trilogia di New York, ma io l'ho amato per 'La musica del caso' perché i libri si insinuano nelle pieghe della vita. 

La morte quando viene non è che bussa. Oddio, certe volte sei tu che decidi quando andartene, ma quando si ama visceralmente la vita hai un presentimento ma nulla più. E ti sale l’angoscia. Che poi è quella che desideri e ricerchi quando scrivi, perché il senso dell’inquietudine è proprio dello scrittore. La vita dello scrittore non è piluccare aperitivi e sorseggiare mojito al lounge bar alla  moda o soggiornare in hotel con più stelle del firmamento come credono tanti molti troppi scrittori. La scrittura è solitudine, che poi condividi con quel sentimento di fratellanza che è propria di chi vive di empatia. 
Vivere è fatica. Scrivere è liberazione. È catarsi. Lo sapeva bene quel grande scrittore che è, anche se se n’è appena andato, di Paul Auster. Tutti lo abbiamo conosciuto per la trilogia di New York, la città che amava come si amano le città che ti dànno tutto e sono capaci di toglierti tutto, amore e sonno inclusi. Io personalmente al di là di ‘Città di vetro’ l’ho amato ai limiti dell’idolatria per la ‘La musica del caso’: forse perché spesso i romanzi sono un po’ come le canzoni, si insinuano nelle pieghe dei momenti della vita e li vivi come se tu stessi in una sorta di altrove, calpestando le orme dei protagonisti. Quel romanzo lo catturai in una libreria indipendente di Firenze tanti anni fa, in una stradina laterale nei pressi della chiesa Santa Maria Novella, cominciai a leggerlo in un american bar fino a divorarlo. Quello era stato un viaggio di fuga solitaria lungo i colli senesi con tappa finale Firenze, un periodo per riflettere e ricaricarsi, pronto per continuare a vivere senza una parte di me, di noi. E quel viaggio di Jim Nashe con la sua fiammante Saab 900 divenne il mio, col Caso a mischiare e gettare le carte su un tavolo rozzo, a vivere una vita avventurosa che si desidera con tutto il cuore ma che alla fine per convenzioni sociali non vivi fino alla fine, anzi non la vivi affatto come vorresti. Correre sulle linee della vita alla ricerca spasmodica dell’ennesima ultima possibilità, prima del divorzio dell’uomo dalla vita: che meraviglia quel romanzo, così cupo di angoscia interiore ma così ricco di vitalità, con le fragilità umane messe a nudo. Eccola la descrizione della solitudine, che si esalta quando incontri vagabondi solitari come te che ricercano la giusta compagnia, ricordando forse che la solitudine non è assenza di gente fuori da te ma assenza di emozioni dentro di te. Ma sei nato occidentale, borghese, comodo, come avrebbe detto mia nonna. L’avventura è un lasso di tempo rappresentato da due parentesi, che aprono e chiudono un momento della tua vita. Sì, Paul Auster è stato, è, un grande autore esistenzialista. Che ci ha influenzato? Forse ci ha ispirato. Forse i percorsi talvolta sono paralleli, seppure gli anni –e i luoghi- restano dei divari incolmabili. 
Paul Auster, il grande scrittore dell’angoscia, dei drammi e delle tragedie familiari, dei traumi e dei distacchi feroci dalla vita, già. E dei grandi sogni. L'ho sempre avvicinato alla prosa dei pezzi di Bruce Springsteen, forse non a caso anche lui del New Jersey e della stessa generazioni. Ma divago. Ho sempre amato gli autori per quelle che vengono definite opere minori, che spesso sono quelle degli esordi anche se non sempre è così, dove provano a riversare prima della maturità della loro narrativa le paure più ancestrali. ‘Timbuctù’ l’ho apprezzato: no, il deserto sahariano del Niger non c’entra nulla anche se restano gli spazi sconfinati di un’America in crisi, qui c’è lo sguardo di Mr Bones, un cane leale e fedele che segue il suo padrone, il vagabondo Willy, che sta per morire. La poesia di quel romanzo originale sta nella scelta di quel titolo all’apparenza fuorviante, dove un poeta immagina che esista un luogo chiamato appunto Timbuctù dove uomini e cani possano congiungersi dopo la morte e parlare tra di loro: eh, la preoccupazione di Mr Bones è che ai cani sia interdetto quell’altrove e che quindi non potrà più stare con il suo amico Willy. E poi la trasposizione cinematografica del racconto ‘Smoke’, dove il Caso è sempre lì a ordire trame ciniche, beffarde, sentimentali, con Auggie che diventa uno di noi o che vorremmo tanto diventare come lui. Solo per un momento. Perché a volte anche vivere attimi è segno di vitalità. Quella vitalità che sceglie sempre il Caso. 
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